Pianificazione Territoriale - Standard urbanistici
 
PIANIFICAZIONE TERRITORIALE - Standard urbanistici

 

3. STANDARD URBANISTICI E AMBIENTALI

 

1. Gli standard e le matrici della disciplina urbanistica 

Il tema degli standard urbanistici e ambientali costituisce un nodo cruciale di riflessione e di dibattito della disciplina, soprattutto di quella sua parte che sta sviluppando e sperimentando nuovi approcci metodologici e nuove forme di intervento sul territorio.

Da quella che era sembrata soprattutto negli anni Ottanta, una crisi dell’urbanistica e del piano regolatore, è maturato in alcuni un nuovo modo di operare, anche grazie al riconoscimento di un percorso storico che ha portato il mestiere della pianificazione a cambiare profondamente nel tempo, forse in termini più marcati nel secondo dopoguerra.

Oggi molti riconoscono, pur nella volontà culturale di mantenere i legami con le radici progettuali e architettoniche, le notevoli differenze tra il fare urbanistica di fine Ottocento e quello attuale. L’urbanistica infatti, seguendo il breve ma completo saggio di Lacaze (1991), ha una molteplicità di matrici alle spalle, che si possono sintetizzare nelle seguenti :

·       l’urbanistica come generazioni di piani regolatori ;

·       l’urbanistica come utopia ;

·       l’urbanistica come storia economica riflessa nei modi d’uso del territorio e quindi come diverse forme di regolamentare i suoli ;

·       l’urbanistica come grande architettura, che considera prevalentemente la dimensione edilizia del piano ;

·       l’urbanistica nei suoi aspetti tecnico-ingegneristici, legati a tutte le opere di “servizio” alla città, che hanno avuto in realtà un potere formidabile di trasformazione del territorio ; ed infine

·       l’urbanistica come medicina della città, quando l’epidemiologia guidava gli sforzi di igienizzazione dei centri urbani.

Tra queste matrici, desideriamo sottolinearne inizialmente due, la prima derivante da una sorta di evoluzione interna alla disciplina, la seconda legata in gran parte a fattori esterni, o meglio al mutamento del contesto sociale, politico ed economico.

Per quanto riguarda il primo aspetto, ci riferiamo al dualismo implicito già nelle origini dell’urbanistica moderna, da un lato la sua genesi disegnativo/progettuale, nell’alveo dell’architettura, dall’altro la sua filiazione medico-sanitaria, associabile quindi allo sviluppo dell’epidemiologia, ossia di una branca della medicina che mette in correlazione l’emergere di alcune patologie con certe caratteristiche ambientali, in particolare delle nuove conurbazioni industriali.

Nel secolo che è trascorso da allora, nell’urbanistica hanno prevalso di volta in volta l’una e l’altra matrice, finendo poi con il sedimentarsi in settori specialistici e mancando così l’occasione forse allora prefigurabile di un supporto spaziale/geografico e di intervento sul territorio per quanto attiene all’epidemiologia, che finì invece per diventare uno dei tanti rami, nemmeno tra i più importanti, della medicina, e privando d’altro canto la pianificazione urbana di un importante strumento tecnico di analisi e di supporto alle decisioni.

L’epidemiologia ha sposato il suo baricentro di interesse verso le aree del terzo Mondo, dove la diffusione di alcune malattie ha la medesima correlazione con alcuni indicatori di qualità ambientale riscontrabili nell’Europa del secolo scorso, ma ha trascurato di approfondire le sue conoscenze in merito a nuovi fenomeni ambientali, derivanti dalle trasformazioni operate dall’uomo nell’era industriale e cedendo in questo il passo alla tossicologia. Quest’ultima, tuttavia, se ha consentito di certificare e di rendere molto più accurate le verifiche in merito alla relazione dosi minime di sostanze nocive/risposta, ha d’altro canto dovuto perseguire tali pur validi obiettivi nel chiuso dei laboratori, finendo così col perdere il legame con l’ambiente in cui il contatto tra soggetti esposti e sostanze nocive avviene.

L’urbanistica, dal canto suo, ha oscillato tra scuole di pensiero maggiormente ancorate al sapere tecnico ed altre di prevalente orientamento estetico-formale, allontanandosi tuttavia in entrambi i casi (almeno per quanto riguarda la vicenda italiana) da quelle discipline tecnico scientifiche (a parte l’epidemiologia, la chimica, per citarne solo alcune) che avrebbero potuto produrre materiali e conoscenze utili al piano.

Questo modo di fare urbanistica tuttavia era coerente con una tradizione ben più antica della progettazione della città e poteva d’altronde ancora funzionare in una realtà sociale costituita da una domanda chiaramente riconoscibile. In passato tale domanda era semplicemente coincidente con la committenza del “principe”, del potere politico. Con l’emergere di nuovi soggetti (le amministrazioni pubbliche, i sindacati), pur avendosi le prime avvisaglie di una futura crisi del rapporto committenza-progettista, ancora si poteva riconoscere una domanda aggregata, portatrice di bisogni quantificabili e relativamente facili da identificare.

Lo standard che veniva introdotto in questo clima sociale e ratificato nella legislazione con il DM 1444/1968, rispondeva proprio all’esigenza di dotare i nuovi quartieri di quote minime di servizi tecnici e di altra natura - quali scuole, asili, verde. In entrambi i casi tali quote si traducevano fisicamente in aree cedute dai privati per questi scopi, ma spesso indipendentemente dall’obbligo di realizzarli, ma soprattutto svincolati da qualunque considerazione localizzativa, di distribuzione sul territorio.

Ancora, tali standard, pensati soprattutto per le espansioni urbane richieste dal processo di urbanizzazione e industrializzazione non riflettevano esigenze unitarie per tutta la città, tanto da essere stati spesso applicati per parti (cfr. testo multimediale sul verde a Milano), né si differenziavano a seconda  del contesto (piccolo centro rurale piuttosto che comune di montagna).

Fin dalla loro origine, quindi, tali standard erano adatti a soddisfare solo un certo tipo di esigenze specifico (come ci sembra d’altronde corretto, ché non esiste secondo noi uno standard universalmente valido) e già allora erano indubbiamente inadeguati rispetto a contesi altri rispetto a quelli per cui erano nati.

Significativamente, tuttavia, la critica allora non si concentrò tanto su questo aspetto, quanto sulla presunta povertà “progettuale” con cui erano stati concepiti da un lato e che sembrano imporre dall’altro.

Se noi invece gli riconosciamo il merito di avere se non altro garantito un livello minimo di dotazione, là dove forse sarebbe mancata del tutto, dobbiamo invece riconoscerne l’insufficienza a fronte di un quadro radicalmente mutato, soprattutto per quanto attiene ai processi di trasformazione della città, che da espansivi verso l’esterno, si sono configurati sempre più come modificazione/recupero dei tessuti consolidati. In questi ultimi, le operazioni necessarie per garantire livelli adeguati di servizi sono tutt’altro che ratificabili in base a soli indici numerici.

D’altro canto, alla specificità dei contesti esistenti, che impone una differenziazione degli interventi anche quando ci si prefigge di mantenere lo stesso metodo e lo stesso approccio, si aggiunge la frantumazione della domanda sociale. L’unica risposta che allora il piano può dare secondo noi, consiste nel governare non più la domanda, quanto piuttosto l’offerta delle possibilità insediative.

Nel momento in cui la domanda si disperde in mille rivoli, inevitabilmente qualunque piano che ne tenti una ricomposizione o una strutturazione, finisce poi per apparire (diventare?) rigido, incapace di adattarsi ad esigenze sfaccettate e rapidamente mutevoli.

Governare l’offerta delle opportunità insediative significa invece porsi obiettivi diversi, non più tesi a fornire risposte singole a richieste quasi individuali, ma piuttosto fornire un quadro ordinato, ragionevole, negoziato ma che pure contenga riferimenti certi, nel quale queste possano muoversi e trovare soddisfacimento.

I “riferimenti certi” non equivalgono ai vincoli tradizionali, costituiscono invece l’esito di un processo conoscitivo e di pianificazione partecipata insieme e si traducono in scelte relative all’intangibilità di alcuni siti e in limiti posti ad alcuni usi del suolo e delle risorse. Tali scelte si differenziano dai vincoli come comunemente intesi nella prassi pianificatoria per alcuni aspetti importanti: sono fortemente contestualizzati e connessi alla specifica realtà per cui vengono decise; non corrispondono ad una rigida logica si/no, tutto/niente, e cercano piuttosto di conciliare esigenze di sviluppo economico, oltre che puramente “edilizio”, con le condizioni ambientali e fisiche, non vengono imposti per mascherare forme di ignoranza, sottoforma di “soluzioni tampone”, cercano altresì di esprimere al meglio le conoscenze attuali in termini di percilosità/criticità/sensibilità di una data area.

D’altronde la logica che presiedeva all’imposizione di vincoli è stata spesso motivata più da ragioni di urgenza e di emergenza che non dal riconoscimento di fragilità/eccezionalità di volta in volta da tutelare, conservare, salvaguardare. Può essere in tal senso istruttivo ricordare come non esista nella tradizione pianificatoria di molti paesi europei il concetto di vincolo; i francesi, per esempio paralno piuttosto di enjeu (posta in gioco), spostando - come intendiamo fare noi- l’attenzione dallo strumento all’oggetto della tutela.

 

 

2. Il rapporto conoscenza-azione-piano

 

E’ chiaro che per perseguire con coerenza tale approccio, non è più possibile intendere il rapporto conoscenza-piano-azione così come si è prevalentemente concepito finora, ossia come una successione di passi.

I tempi lunghi del piano, intesi proprio come tempi tecnici di elaborazione, verifica, discussione, adozione, approvazione, non possono più essere presi a pretesto per l’inerzia e d’altro canto, mettendo da parte i casi di palese inadempienza o inettitudine amministrativa, essi non possono essere forzati oltre un certo limite, in quanto sono connaturati ad un processo i cui risultati influenzano e talvolta marcano in modo decisivo un territorio per molti decenni, quando non per secoli.

Sa da un lato i tempi lughi della pianificazione sono ragionevolmente  proporzionati ai tempi lunghi in cui se ne risentiranno gli effetti, dall’altro è anche vero che non tutte le decisioni possono essere rinviate a quando tutto l’iter sarà pefezionato. Alcune azioni, riconosciute come prioritarie e in coerenza con quanto stabiliscono le linee guida del piano che si sta formando, possono essere ben anticipate, consentendo così al piano stesso di giovarsi dei ritorni conoscitivi e di verifica che i primi esiti di quelle azioni apporteranno. In tal modo si mettono in pratica dei meccanismi di controllo a livello sistemico, definiti da alcuni autori (cfr. Fortune e Peter, 1997) come moderni e capaci di dsuperare il metodo di controllo classico, e caratteristico dell’ingegneria, che si adatt abene solo a situazioni in cui è possibile produrre un prototipo e correggere i difetti dei primi pezzi di una numerosa produzione. Nel caso della pianificazione territoriale tale meccanismo “classico” non ha mai potuto essree applicato, soprattutto perché gli oggetti e i sistemi da pianificare e progettare sono quasi sempre degli “unicum”. Il metodo moderno di controllo, verifica e correzione si avvale invece di due metodi complementari: da un lato quello basato sulla simulazione degli effetti di determinate azioni provate sui modelli, dall’altro quello che, anticipando alcune di queste consente, ai primi esiti, di modificare eventuali distorsioni o difetti inattesi, operando direttamente sulla realtà, secondo duna strategia significativamente etichettata di feedforward (letteralmente “che si alimenta avanzando”). Questo implica collateralmente, ma inequivocabilmente, che il cosiddetto monitoraggio non è opzionale, né costituisce una sorta di suggello a una decisione ormai già presa e concretizzata, ma che, piuttosto fa parte integrante del processo pianificatorio stesso. Quest’ultimo allora non fa più parte della triade di cui si diceva prima, poiché sia l’azione sia la conoscenza del territorio costituiscono il piano, insieme agli orientamenti strategici, alle scelte non piùà negoziabili (i “riferiemnti certi” di cui si parlava prima).

Per arrivare ad un procedimento così concepito, è necessario avvalersi di una metodologia e di criteri di indagine aventi una base teorica forte, oltre che di procedure che anziché azzerarsi ad ogni nuovo piano, si affinino di volta in volta sino a costituire un corpus accettato perché costruito dagli studiosi della disciplina, ma anche -e in misura considerevole- dai suoi utilzzatori ordinari, ovvero le amministrazioni pubbliche, gli uffici di piano, gli assessorati ai LLPP, all’energia, etc.

 

3. I rapporti con le altre discipline

 

Se quanto abbiamo detto finora degli indicatori riguarda prevalentemente la forma che essi assumono nell’ambito del processo pianificatorio così come lo andiamo definendo attraverso esperienze concrete (cfr. Mantova e Cremona), rimane ancora da specificare il loro contenuto.

Accettando la molteplicità di matrici concorrenti a plasmare l’urbanistica, gli indicatori fanno capo a settori disciplinari distinti, sostanzialmente riconducibili a due grandi filoni: quello relativo alla popolazione e all’economica da un lato, quello legato all’ambiente fisico dall’altro. La differenza rispetto a prassi pianificatorie precedenti che pure affidavano ad esperti di altre materie alcune analisi specialistiche, riguarda soprattutto il modo in cui vengono utilizzate e per come viene concepito il loro apporto.

Innanzitutto quest’ultimo è continuativo e non occasionale; per essere perseguito richiede che o l’ufficio di piano si doti delle competenze necessarie (almeno ad un livello minimo) o che si arrivi ad un coordinamento effettivo fra uffici diversi ma che si occupano tutti, almeno in parte, di pianificazione e gestione del territorio (opzione questa che appare assai più ragionevole e secondo noi destinata a imporsi su pratiche burocratiche parcellizzate, diseconomiche e inefficienti).

In secondo luogo, affinché tale interazione abbia successo, occorre che vengano soddisfatti due requisiti: che i saperi disciplinari servano gli obiettivi conoscitivi e di piano posti di volta in volta, superando quindi la logica interna a ciascuna di esse, e quindi in modo del tutto connesso al precedente punto, che i formati di rappresentazione e di restituzione degli esiti delle analisi sia coerente con le esigenze del pianificatore, siano cioè “ad uso urbanistico”.

Questo richiede banalmente un’attenzione alle scale di indagine e di rappresentazione (la scala 1:25.000 che può essere ritenuta soddisfacente per studiare determinati fenomeni geologici, ad esempio, è del tutto inadeguata se l’obiettivo del piano riguarda la definizione di aree di espansione nei singoli comuni), ma in un senso più ampio impone che vengano rispettati dei veri e propri standard dei formati, che sono a tutt’oggi sostanzialmente da progettare a da definire - con l’avvertenza però che senza di essi sarà ben difficile consolidare una vera  e propria metodologia di piano. Alcuni strumenti e metodi desunti da altre discipline (dalla sociologia, alla geografia, all’economia) si sono fermati ad una scala geografica troppo grande per poter tradursi efficacemente in misure locali e concrete di piano. Tant’è che pur avendo talvolta una grande capacità esplicativa, non riescono poi ad essere implementate nei piani. Pensiamo ad esempio alla teoria delle reti, allo stesso concetto di sostenibilità e di vulnerabilità, al piano strategico. Mentre sul versante economico simili concetti funzionano abbastanza bene, per la pianificazione è necessario prevederne anche una forma spaziale, una dislocazione sul territorio, con tutti i problemi di esclusione, marginalizzazione, spostamento di baricentri e rischi che questo comporta.

Nella parte monografica che presentiamo, questa specifica questione è stata affrontata in numerosi saggi e ci preme sottolineare non tutti a firma di architetti o urbanisti, a testimonianza del fatto che tale esigenza è sentita anche da coloro che, chiamati dalla committenza pubblica a fornire il loro contributo specialistico, si sono tuttavia interrogati sull’applicabilità e sull’utilizzabilità effettiva dei loro prodotti, una volta affidati ad altre mani, aventi -soprattutto- altri obiettivi rispetto alla sola conoscenza scientifica di determinati fenomeni.

Ritorna qui in modo emblematico quanto sostenuto da alcuni autori (Funtowicz, Salter) in merito al ruolo degli scienziati quando lavorano a supporto di un processo decisionale politico, di piano, di formulazione di uno standard. Pur partendo da esperienze diverse, tali autori concordano sulla necessità di dotare gli scienziati coinvolti in processi decisionali di tale natura di strumenti specifici, che non possono essere semplicisticamente ridotti alla “capacità comunicativa” o di trasmissione del sapere. Si tratta in realtà di ripensare tecniche, metodi di indagine, formati di presentazione dei risultati coerenti rispetto all’uso che se ne dovrà fare, in un senso molto vicino a quello da noi indicato.

Dal momento che -dunque- il processo di acquisizione di conoscenze è parte integrante della formazione del piano e della sua gestione, gli standard non possono essere concepiti come un qualcosa di statico, immutabile, valido una volta per tutte e non più passibile di modifica e correzione se non in occasione eccezionali. Piuttosto occorre pensarlo coem un riferimento da rispettare nel piano e nella gestione del territorio, ma che andrà rivisto ogniqualvolta nuove, migliori conoscenze imporranno di adeguarlo ; non solo, ma anche quando la scala di preferenze e  gli obiettivi sociali ne richiederanno un riorientamento.

Questo è già avvenuto nei fatti, non saremmo altrimenti quasi obbligati oggi a mettere insieme standard urbanistici e ambientali ; la sfida che vogliamo cogliere riguarda invece se far sì che la pianificazione sia nuovamente in grado di orientare tali mutamenti piuttosto che seguirli sempre a ruota.

Lungi dal costituire quindi dei numeri che vincolano il piano, irrigidendolo (posto che sia mai stato corretto concepire anche gli standard ex DM 1444 come tali), gli standard delimitano piuttosto delle soglie di tollerabilità, accettabilità di alcune condizioni ambientali, dell’esistenza di determinate condizioni, rispetto alle quali il piano letteralmente misura la propria efficienza (nei singoli settori) e la propria efficacia (negli effetti risultanti dall’interazione di componenti diverse), nel perseguire i propri obiettivi e nella capacità di orientare scelte e interventi secondo i criteri stabilit e non negoziabili una volta assunti.

La nozione di soglia comporta un ampliamento di quella di standard inteso come “area” da destinarsi a certe funzioni o servizi collettivi. Accanto a quest’ultima accezione, si avranno infatti :

·       standard non associabili in modo diretto ad ogni singolo intervento per tipologia dello stesso (ovvero residenziale, terziario, industriale, misto), ma piuttosto relativi a come tali destinazioni d’uso sono ripartite tra diversi siti di uno stesso comune e tra più comuni, secondo criteri di polarità riconoscibili. Servizi quali ospedali, scuole superiori, alcuni uffici pubblici già si riconfigurano in questo modo in zone dove il raggio d’utenza, a fronte di una popolazione in continuo calo, non è più uno standard adeguato. USSL, distretti scolastici già adottano la soglia come riferimento, ma spesso, con scarsa attenzione agli aspetti territoriali, ad esempio di accessibilità, perseguendo logiche “interne” del servizio. E’ ancora una volta la pianificazione territoriale che può orientare tali ristrutturazioni in un senso efficiente anche dal punto di vista spaziale , anche in coerenza con altre funzioni.

Arriviamo così ad un terzo tipo di standard, traducibile non in aree ma nel modo in cui le diverse funzioni e gli interventi sono dislocati spazialmente e nelle tecniche di realizzazione. Questo implica la riassunzione nella disciplina della progettazione delle cosiddette grandi opere, non evidentemente nella loro componente tecnica, ma in quella urbanistica, sottratte, anche normativamente,  alla giurisdizione del piano. Se tale scissione poteva avere un senso quando prevaleva la concezione del piano regolatore comunale, ne ha molto meno quando le coerenze e le priorità vanno valutate a scala provinciale o di area vasta. Alcuni sostengono che questo passggio imponga la rottura con il piano regolatore ex 1550/1942, ma si potrebbe dire l’esatto opposto, ovvero che si tratta di un’evoluzione della filosofia che ha portato l’urbanistica ad abbandonare l’approccio rigidamente edilizio del Programma di Fabbricazione a favore di un trattamento più armonico delle varie componenti, non solo di quella edilizia, della città nel Piano Regolatore Generale, per allargarsi ultimamente al trattamento degli elementi fisici e territoriali di aree vaste, comprendenti gli agglomerati urbani. Tradizionalmente l’urbanistica è nata come arte o tecnica della città e ha trascurato quanto stava al di fuori del recinto urbano. Non esiste praticamente una tradizione disciplinare (almeno in Europa e in particolare in Italia) sulle aree agricole, forestali, litoranee, se non come proiezione simbolica o di espansione materiale della città. Tali aree non sono state oggetto di alcuna particolare attenzione da parte del piano o del progetto, se non come paesaggio disegnato (tanto da meritarsi l’acronimo inglese di sloap : soil left over after planning). Il non edificato è rimasto spazio di risulta, sul quale innestare tutt’al più grandi opere infrastrutturali che sono divenute però quasi subito ambito di lavoro specialistico dell’ingegneria (cfr. Zucconi), che non si è affatto preoccupata del contesto fisico/naturale e territoriale nel quale interveniva. Altrettanto trascurato dalla disciplina il sottosuolo  urbano, ovvero la sede di tutte quelle opere di servizio alla città che sono state sempre considerata di pertinenza tecnica e settoriale.

·       Un quarto genere di standard consiste in soglie che possono essere fissate solo a livello di sistema, che nascono cioè per controllare l’interazione tra più sistemi, fisici, ambientali, territoriali. Come si può notare in questa elencazione, ci stiamo progressivamente allontanando dalla nozione di standard come “area”. Tali soglie “di sistema” a loro volta si suddividono in due sottogruppi : quelle che concorrono a definire complessivamente una qualità dell’insediamento minima, e quelle costituite da un unico indicatore, da un unico parametro, che da solo è già un riferimento sufficiente. Sono di questo tipo tutte le soglie di allarme, relative a situazioni di pericolo o di margine di sicurezza prima che tale pericolo si manifesti. Tali indicatori, relativi ad esempio alla qualità dell’acqua o dell’aria, sintetizzano o più precisamente riescono a surrogare una molteplicità di altri indicatori, e segnalano la presenza di “vincoli” all’azione. Vincolo da non intendere nel senso tradizionale dell’urbanistica come argomentato poco sopra, ma come condizione imprescindibile che pone/impone limiti all’azione e agli interventi. E’ stato detto che «le preferenze rivelano in un senso o nell’altro poco. Molto più importanti delle scelte che le persone fanno, sono i vincoli sotto i quali decidono» (Margalin, 1990). Noi assumiamo una posizione intermedia : le alternative esistono, possono essere confrontate e preferite le une alle altre ; tuttavia esse devono confrontarsi con alcuni fattori limitanti ineludibili.